Taxi Fillo 2

di Filippo Messori

Ci sono notti in cui lavorare è un piacere. Niente traffico, corse meravigliosamente normali, gente educata, qualche conversazione gratificante ed un paio di mance discrete.
Non potrebbe andare meglio.
Ma il diavolo fa le pentole e non i coperchi, dicono, e quale migliore modo avrebbe allora di metterci lo zampone, se non quello di farmi caricare un tegame?
Mentre mi spaparanzo allegro in via Conte Ciano eccola, da lontano, che si sbraccia. A vederla sembra proprio un’inculata bella e buona, insomma, né bella, né buona, ma inculata clamorosamente sì.

Mi fermo per scrupolo, infiacchito dai sentimenti e dal buon andamento degli affari, il denaro si sa, corrompe l’uomo e lo rende frivolo.
Sale subito, e mette in chiaro una cosa: non ha un centesimo, ma è amica di tanti spacciatori, dice, mi darà duecento euro l’indomani di sicuro.
Ma sicuro sicuro.
Nicchio un po’, gigioneggio, ma oramai per tirarla giù dovrei toccarla, e proprio non ho voglia di prendere la lebbra.
Ringrazia sentitamente, e partiamo.

Parla malissimo, ed in maniera sconnessa.
Blatera dei suoi problemi, che l’ho salvata, e mi accarezza fastidiosamente il braccio destro, protetto vivaddio da spessi strati di piume e poliestere. Poi, si arrotola la manica destra e mi lancia il braccio praticamente in faccia, mostrandomi un bel cerottone lordo di sangue rappreso, e l’attacco di una flebo, con mezzo tubo e tutto, ancora infilato nel suddetto braccio.
È chiaramente fuggita dal policlinico.
Rimango un pelo basito, consapevole di aver già innescato quella che sarà la mina che mi farà colare a picco la serata, tipo la Viribus Unitis.
Divago, tergiverso, credo di averle fatto anche un paio di complimenti falsi come Giuda, ed accelero.

Ma accelero.

Continua a giustificarsi ed a lamentare che è messa un po’ male, lodandomi come un bonzo, e continuando a promettermi faville dai suoi amici malavitosi.
Tiene così tanto a convincermi, che sui 160 chilometri orari alza i toni e la posta in gioco tirandosi su la maglia, facendomi vedere delle cose che non descriverò mai, dicendomi di “guardare come fosse fatta”. Fatta lo era di certo.

Io bestemmio fortissimo a livello cerebrale, mi giro e continuo a complimentarmi, grazie, prego, che bel personalino, e questa continua a strusciarsi ed a farmi delle moine inaudite con una sìssola da sdentata, dal tremebondo retrogusto di colera.

Dopo qualche centinaio di metri relativamente tranquillo, se paragonato a quelli precedenti, mi arriva da sopra e mi bacia in testa, mettendomi le mani sugli occhi e bloccandomi la visuale.
Dicono che quando si è in pericolo, in strada, bisogna accelerare, così che esso si allontani più in fretta.
Lo faccio.
Ma decido anche che basta.
Trovo il punto più buio della zona, la convinco che sia casa sua.
Scende contentissima promettendomi di nuovo di coprirmi d’oro grazie alla malavita, e se ne va nelle tenebre, felice come una pasqua.
L’ho mollata in uno sfasciacarrozze. D’altro canto, in quanto male in arnese, si troverà benissimo.